Morbo di Parkinson: siamo alla vigilia di una nuova consapevolezza. Cominciamo a non chiamarlo più “morbo”, come esigono le principali associazioni dei pazienti che stanno lavorando a una campagna nazionale di sensibilizzazione intitolata appunto “non chiamatemi morbo!” Con questo titolo è stato già pubblicato un libro fotografico, edito da Contrasto, con le storie delle persone che lottano con la malattia di Parkinson. Un libro nato a Bergamo, per volontà di Marco Guido Salvi, Vice Presidente dell’Associazione Italiana Parkinsoniani e leader della sezione di Bergamo. Bergamasco anche Giangi Milesi, Presidente dell’altra grande realtà nazionale, la Confederazione Parkinson Italia. Grazie alla loro collaborazione, le immagini di Giovanni Diffidenti – quelle del libro e altre ancora – diventeranno presto una mostra fotografica parlante, che girerà l’Italia. A dare voce alle foto saranno direttamente Mr. e Mrs. Parkinson, interpretati con passione da Claudio Bisio e Lella Costa. Scopo di queste iniziative è divulgare le conoscenze scientifiche, accrescere la consapevolezza e promuovere la salute.
Perché bandire la parola morbo? Perché evoca la peste manzoniana, la malattia contagiosa, che conduce a morte, che provoca vergogna, che va nascosta. La parola malattia che per fortuna l’ha sostituita – ma le cattive abitudini sono dure a morire – ha tutta un’altra connotazione: significa alterazione di un organismo che ne compromette la salute.
Per tradurre malattia in inglese si possono usare addirittura tre diverse parole: disease per indicare la patologia; illness le conseguenze sulla salute del malato; sickness la percezione della malattia a livello sociale. Sono tre sinonimi, ma mettono in evidenza tre diversi punti di vista: del medico curante, del paziente e della comunità. Le tre parole inglesi rappresentano l’evoluzione del processo di cura: da biologico a bio-psico-sociale. Lo sguardo del medico non deve più focalizzarsi sulla malattia, sul “guasto” ma deve comprendere l’individuo nella sua complessità e unicità, al di là dell’organismo che non funziona. Nel caso di una malattia cronica, lentamente progressiva che colpisce in prevalenza persone anziane come la malattia di Parkinson l’approccio bio-psico-sociale sembra l’unico possibile. Basti pensare che le sole parole, anzi i semplici atteggiamenti del medico sono in grado di influenzare in maniera positiva la salute o la risposta alla terapia, possono avere cioè un effetto placebo. Per placebo (dal latino io piacerò) si intende la somministrazione di una sostanza inerte accompagnata dai comportamenti e dagli stimoli di natura psicologica del medico e perfino dal colore e dalla forma del farmaco. È scientificamente dimostrato che le parole e i comportamenti facciano aumentare la dopamina nel cervello dei pazienti parkinsoniani quando questi si aspettano di ricevere una cura che funziona. L’assunzione di un placebo può essere quindi altrettanto efficace di un farmaco a condizione che il paziente 1) conosca gli effetti terapeutici del farmaco sostituito dal placebo 2) riponga fiducia nel medico e nella terapia. In altre parole la fiducia è parte della cura.
Questo approccio alle malattie croniche è un grande cambiamento e lo hanno dimostrato recentemente anche le sperimentazioni della teleassistenza e della telemedicina nell’emergenza sanitaria del Coronavirus.
La malattia di Parkinson è una malattia neurodegenerativa che in Italia colpisce circa 230.000 persone, ma è probabile che ignoranza e stigma nascondano anche una quota di Parkinson “sommerso”. L’1-2% degli ultrasessantenni ne è affetto. Raramente la malattia può esordire prima dei 50 anni. È utile ricordare che non tutte le persone che tremano hanno il Parkinson e non tutti i pazienti parkinsoniani tremano; il tremore è sicuramente il sintomo più evidente, si manifesta in un solo segmento corporeo durante il riposo e scompare con il movimento.
Ancora oggi, dopo molti anni dalla sua prima descrizione, la diagnosi rimane fondamentalmente una diagnosi clinica, basata cioè su una semplice visita medica. La diagnosi si fonda sulla presenza combinata di alcuni sintomi, diversi da caso a caso, di cui spesso il paziente non è consapevole e che invece vengono notati dalle altre persone: il volto diviene meno espressivo; le palpebre sbattono meno frequentemente (ipomimia), il movimento di un braccio o di una gamba diviene difficile in assenza di dolore; i movimenti fini di una mano diventano impacciati (bradicinesia), i movimenti automatici che accompagnano alcune azioni come oscillare il braccio durante il cammino o gesticolare durante una conversazione si riducono o spariscono; la voce diventa flebile e monotona (ipofonia) e compaiono difficoltà nell’articolare le parole (disartria). Sono alcuni dei sintomi motori che permettono di fare la diagnosi, ma è il peso dei sintomi non motori a gravare maggiormente sulla qualità della vita del paziente. Alcuni di questi possono precedere di anni l’esordio dei disturbi motori e quindi non essere messi in relazione con la malattia (riduzione dell’olfatto, disturbi del sonno, depressione, stipsi). Altri disturbi insorgono nel corso della malattia in fase più o meno precoce: dolore, fatica, depressione, ansia, attacchi di panico, deficit cognitivo, ipotensione ortostatica, disturbi genitourinari, gastrointestinali, demenza, psicosi.
È vero che i farmaci non guariscono dal Parkinson, ne curano solo i sintomi, ma l’assunzione della terapia farmacologica in fase precoce garantisce una buona qualità della vita per un numero di anni che può corrispondere all’aspettativa di vita di una persona sana. Da ciò l’importanza di una diagnosi precoce.
La dotazione di farmaci attualmente a disposizione è ampia e permette di personalizzare la terapia in relazione al quadro clinico, all’età e alle caratteristiche sociali del paziente. Ciò consente di trattare con successo i primi anni di malattia. La vera sfida terapeutica rimane la gestione della fase avanzata, quando compaiono le complicanze motorie e importanti sintomi non motori; quando i farmaci non risultano più efficaci. In questa fase il paziente diviene dipendente nelle attività della vita quotidiana.
Come nella diagnosi, anche la terapia si basa principalmente sull’esperienza. Il medico è l’artigiano della cura del Parkinson e la tecnologia non ha sostituito questo ruolo.
Presso il Presidio Ospedaliero Territoriale di Calcinate è attivo un ambulatorio specializzato nella diagnosi e cura della malattia di Parkinson e degli altri disturbi del movimento. Malgrado sia un piccolo ospedale – o proprio perché è un piccolo ospedale – offre un servizio molto apprezzato dai pazienti parkinsoniani: la continuità nel processo di cura. Il paziente viene preso in carico dallo stesso medico che lo seguirà durante l’evolversi delle varie fasi di malattia. Il Parkinson è una malattia cronica, lentamente progressiva, in cui il rapporto paziente-terapeuta è il nodo centrale del processo di cura. Da qui parte la nuova consapevolezza.